APPALTI PUBBLICI – PER L’INTERDITTIVA ANTIMAFIA BASTA UN DIPENDENTE “INFILTRATO”
(Consiglio di Stato, Sezione Terza, Sentenza n. 5410 del 14 settembre 2018)
Il condizionamento mafioso, che porta all’interdittiva antimafia, si può desumere oltre che da legami familiari, anche dalla presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa.
È quanto deciso dal Consiglio di Stato nel caso di una società attinta da informativa antimafia, che si vedeva confermare tale provvedimento, essendo state riscontrate cointeressenze economiche tra la famiglia che deteneva il 50% del capitale sociale e soggetti affiliati ad associazioni criminose ().
A ciò si aggiungeva la presenza tra i dipendenti di due esponenti della malavita, condannati per associazione di tipo mafioso ed autori, peraltro, di estorsione in danno della medesima ricorrente e per i quali era mancato il tempestivo di licenziamento.
In merito all’ interdittiva antimafia, si ricorda che questa non solo attesta la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del d.lgs. n. 159/2011 (previste anche nella comunicazione antimafia), ma anche la sussistenza di tentativi d’infiltrazione mafiosa volti al controllo e all’indirizzo di un’impresa.
L’interdittiva antimafia, come osservato dal Collegio, si dispone tramite una ponderazione discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi d’infiltrazione mafiosa, per i quali rileva il complesso degli elementi concreti al di fuori di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria (cfr. anche Tar Toscana, Sez. II, 6 giugno 2018 n. 910, in un caso di cessione di ramo d’azienda).
In caso contrario, si vanificherebbe la finalità di prevenire il grave pericolo di rapporti contrattuali tra la PA e un soggetto che non merita fiducia.
Ne consegue che il cd. «giudizio prognostico di contaminazione criminale» del Prefetto, adottato secondo il criterio del «più probabile che non» (cfr. News ANCE ID 32477 del 4 maggio 2018), può basarsi su dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, non penalmente rilevanti o addirittura oggetto proscioglimento o di assoluzione.
Sotto questo profilo, viene posta in rilievo la complessa organizzazione della mafia con struttura tipicamente clanica, per cui all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti che può condizionare anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso, il quale «può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione».
In merito al ricorso, il Collegio ha ricordato che, considerato l’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, il giudice amministrativo adito deve limitarsi ad accertare che i fatti considerati dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla legge o che la decisione sia viziata dal travisamento dei fatti accertati oppure da manifesta illogicità, irragionevolezza in relazione alla rilevanza dei fatti stessi.
In nessun caso il sindacato del giudice può ricadere sull’accertamento dei fatti posti a base del provvedimento, considerato anche che per l’interdittiva rileva il quadro indiziario complessivo (Cons. Stato Sez. III, n. 5143/2017).
Applicando, tale ricostruzione del quadro normativo e interpretativo dell’interdittiva, il Collegio riteneva che nel caso specifico, era «più probabile che non» la contaminazione dell’impresa da parte dalla mafia.
Infatti, la fattispecie esaminata rientrava nel caso di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa che, in ragione di legami familiari, intessono legami di cointeressenza, solidarietà, copertura o quanto meno esprimono soggezione e tolleranza nei confronti di soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose sottendano.
Da notare che tale orientamento è ampliamente condiviso in giurisprudenza, che in una diversa occasione ha ritenuto legittima l’interdittiva antimafia adottata sul rilievo che il titolare di impresa individuale, immune da pregiudizi penali, avesse significativi legami con una famiglia vicina alla cosca mafiosa, operante in zona in cui è particolarmente presente il fenomeno mafioso (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 13 aprile 2018 n. 2231).
Nel caso in esame vi era anche un secondo aspetto rilevante, basato sul presupposto che il condizionamento mafioso può derivare dalla presenza di dipendenti “infiltrati” che – entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi e pur non svolgendo ruoli apicali all’interno della società – siano capaci di influenzare le scelte dell’impresa.
A dimostrazione di ciò, nel caso specifico, l’impresa non era stata neppure in grado di licenziare i dipendenti “mafiosi” dopo l’estorsione subita.
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