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28.02.2013 - urbanistica

MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO CON O SENZA OPERE

MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO CON O SENZA OPERE
(Commento del geom. Antonio Gnecchi)

Il mutamento della destinazione d’uso degli immobili prende origine dall’articolo 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 in base al quale “Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti della destinazione d’uso, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività”. Il successivo articolo 32, dispone inoltre, che  le stesse regioni stabiliscano quali siano le condizioni che determinano (anche singolarmente) le “variazioni essenziali” al progetto approvato con un permesso di costruire, comprendendo, alla lettera a), anche i mutamenti della destinazione d’uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968.

La legge regionale 11 marzo 2005, n. 12, ha disciplinato il mutamento della destinazione d’uso, con gli articoli da 51 a 54, tenendo conto dei seguenti punti fermi:

– distinguere i cambi d’uso con o senza opere,
– rilevanza solo se il passaggio di destinazione avviene tra tipologie funzionalmente autonome dal punto di vista edilizio (abitative, direzionali, commerciali, produttive, agricole),
– le destinazioni rilevanti sono quelle che
hanno diversa incidenza degli “standard” (ora “aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale”),
– l’accertamento della preesistenza di un uso.

La legge regionale n. 4 del 14 marzo 2008, ha modificato l’articolo 51, comma 1, della legge regionale n. 12/05, stabilendo che le destinazioni principali, complementari, accessorie o compatibili, possono coesistere senza limitazioni percentuali e possono, tra esse, sempre variare, salvo quelle escluse dal PGT.
Oggi, in Lombardia, la materia è disciplinata, come sopra detto, dagli articoli da 51 a 54, della legge regionale n. 12 del 2005 e successive modifiche.
Dinanzi alla necessità di cambiare destinazione a una unità immobiliare, oggi occorre tener presente alcuni punti fermi:

1. distinguere un cambio di destinazione con opere e senza opere, intendendo per opere quelle che per tipo e consistenza siano idonee a far mutare l’utilizzazione del bene. Non hanno rilievo le opere edili quali: le tramezzature senza impianti, opere che solo occasionalmente possono essere collegate a mutamenti di destinazione d’uso;

2. il mutamento di destinazione d’uso è urbanisticamente rilevante solo se il passaggio di destinazione avviene tra tipologie funzionalmente autonome dal punto di vista edilizio. Per categorie si intendono quelle stabilite da leggi regionali: abitative, direzionali, commerciali e di servizio, produttive, agricole, alberghiere;

3. le categorie rilevanti, dopo la modifica introdotta dalla legge collegata alla Finanziaria (legge n. 662 del 1996), saranno quelle individuate dalla regione, con ulteriori rinvii ai PRG (o PGT) dei comuni. Quale principio di massima, le categorie rilevanti ai fini urbanistici, sono quelle che hanno diversi standard nelle dotazioni di parcheggi, infrastrutture, strade, fogne o altre opere di urbanizzazione. Esempio: il passaggio di una abitazione a studio professionale, effettuato senza opere, deve ritenersi ammesso, anche se è venuta meno l’applicazione regionale di cui all’articolo 25 della legge n. 47/85, ora articolo 10, comma 2, d.P.R. 380/01;

4. l’accertamento della preesistenza di un uso. Esempio: cambio d’uso, con opere, da ufficio ad abitazione che sia stato preceduto da un cambio di destinazione d’uso da abitazione a ufficio della stessa unità immobiliare. In tal caso, è agevole ripristinare l’uso precedente, dimostrando tale circostanza con prove di versamento di bollette telefoniche, elettriche, ecc.;

5. comunque i comuni interpretino la nuova norma con riferimento alle leggi regionali antecedenti, occorre tener presente che i cambi di destinazione d’uso senza opere precedenti l’attività dei comuni, attuativa dell’articolo 25, non è sanzionabile.

La legge regionale 12/05 ha stabilito che sono i comuni ad indicare nei PGT quali casi di mutamenti di destinazione d’uso di aree e di edifici, attuati con opere edilizie, che comportano un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.

L’articolo 52 ha ripreso il precedente articolo 2 della legge regionale 01/01 sui mutamenti di destinazione d’uso con o senza opere, così come l’articolo 53 quello delle sanzioni amministrative dell’ex articolo 3 stessa legge regionale 01/01.
Nello stesso capo VI è stata introdotta la disciplina sulla determinazione delle variazioni essenziali (ex articolo 1, legge regionale 19/92) il cui primo comma, lettera a), dispone che costituisce variazione essenziale anche il mutamento della destinazione d’uso che determina carenze di aree per servizi e attrezzature di interesse generale, salvo i casi di cui ai commi 4 e 5 del precedente articolo 51.

L’articolo 52, comma 3, della legge regionale 12/05 ha modificato l’articolo 19, comma 3, d.P.R. 380/01, togliendo il riferimento alle destinazioni da agricole a produttive o altro, ma semplicemente comunque modificata nei 10 anni successivi all’ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell’intervenuta variazione. Quanto sopra in esecuzione al dettato di cui all’articolo 25, della legge 47/85, che era stato recepito dalla Regione Lombardia con la legge regionale 19/92, ora confluita appunto nella legge regionale 12/05.

La legge regionale 14 marzo 2008, n. 4, con l’articolo 1, comma 1, lettera xx), ha sostituito l’articolo 51, comma 1, della legge regionale n. 12/2005, introducendo, per le destinazioni d’uso degli edifici, oltre a quella principale, quella complementare, accessoria o compatibile,, purché siano previste dallo strumento urbanistico generale, senza limitazioni, salvo quelle eventualmente escluse dal PGT.

In primo luogo la nuova formulazione vuole porre un punto fermo alle destinazioni d’uso degli immobili condonati affermando che le stesse sono quelle derivanti dai provvedimenti definitivi, oltre ad essere compatibili con quelle ammesse dagli strumenti urbanistici.

In secondo luogo (è più significativo del primo) che le destinazioni principali, complementari, accessorie o compatibili, possono coesistere senza limitazioni, percentuali e possono tra esse, sempre variare, salvo quelle escluse dal PGT.
Ricordo che già la legge regionale 12/2005 prescrive di stabilire nei PGT le destinazioni d’uso non ammesse.
Questa norma impone ai comuni di individuare al meglio le destinazioni d’uso escluse, con la conseguenza di dimenticarne alcune che potrebbero creare problemi alle stesse amministrazioni comunali.
Potrebbe essere significativa l’approvazione di una norma che stabilisca l’esclusione di tutte le destinazioni d’uso, ad eccezione di quelle residenziali, commerciali, terziario diffuso e artigianato di servizio, non nocivo e molesto.

Altra modifica introdotta riguarda il comma 2 dell’articolo 52, secondo la quale gli interessati sono obbligati a presentare la comunicazione di mutamenti di destinazione d’uso anche in caso questa riguardi unità immobiliari o parti di essa, la cui superficie lorda di pavimento sia inferiore a 150 mq.
In questo caso è stata eliminata la precedente previsione in quanto sembra che l’esclusione di tale adempimento ponesse qualche problema ai comuni per l’eventuale corresponsione del contributo di costruzione dovuti per le nuove destinazioni, oltre a tributi diversi.
La stessa legge regionale n. 4 del 2008 ha introdotto l’obbligo di assoggettare a permesso di costruire i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali.

Un punto fermo dell’articolo 52, legge regionale n. 12/2005, è costituito dal comma 1, secondo il quale “i mutamenti di destinazione d’uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento e sono ammesse anche nell’ambito di piani attuativi in corso di esecuzione”.
Questo significa che:

1- possono verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di manutenzione straordinaria,

2- possono verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di restauro e risanamento conservativo,

3- possono verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di ristrutturazione edilizia.

A proposito delle tipologie d’intervento, ritengo necessario ribadire, ancora una volta, alcune precisazioni in ordine alle definizioni di cui all’articolo 3 del Testo Unico dell’Edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380:

a) il legislatore ha cercato di ricondurre la suddivisione delle categorie di interventi edilizi non solo e non tanto nella mera descrizione analitica degli interventi possibili, ma soprattutto alla qualificazione concettuale della loro finalità ed esito ultimo. Pertanto ha qualificato le varie modalità di intervento sugli edifici differenziandole su base qualitativa (e non quantitativa) della tipologia dei lavori che la caratterizzano, istituendole come “categorie contigue” tra loro per contenuto tecnico via via più complesso ed esteso.

b) il discrimine tra l’una e l’altra di queste categorie è dunque sottile in quanto esse rappresentano una sorta di “progressione” dell’entità e complessità dell’intervento edilizio eseguito (o da eseguire). Spesso si pone il problema di riconoscere la tipologia partendo dalla complessità delle definizioni degli interventi che non sempre portano a linee di demarcazione ben definite tra l’una l’altra categoria come il legislatore vorrebbe.

c) è opportuno, pertanto, ricorrere alla catalogazione concettuale voluta dal legislatore per qualificare gli interventi, evitando di ricercare la soluzione del problema in ulteriori e più analitiche descrizione di lavori. Per esempio, prima ancora che dalla descrizione analitica, si dovrà dedurre che i lavori sono di manutenzione quando rispondono alla definizione di “ …. opere…. necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti “ (definizione di manutenzione ordinaria) o, al massimo, a quella di “…… opere e ….. modifiche necessarie per ….. realizzare ed integrare i servizi igienici – sanitari e tecnologici, sempre che ….. non comportino modifiche delle destinazioni d’uso” (definizione della manutenzione straordinaria). Per “salire” alle categorie superiori occorre invece “ …… un insieme sistematico di opere ….” rivolto a “ conservare l’organismo edilizio”  che “ ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili” e “prevedano l’inserimento (dunque ex novo) ……. degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso” (categoria del restauro e risanamento conservativo) o, ancora, tali da “ trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere ….” (definizione di ristrutturazione edilizia).

d) si può concludere che laddove non vi sia il richiesto “insieme sistematico di opere“ teso alla conservazione o alla trasformazione (tale dunque da configurare rispettivamente il “restauro e risanamento conservativo”, ovvero la “ristrutturazione edilizia”), vi sia la mera esecuzione di singoli interventi di “adeguamento o rinnovamento dell’esistente” (e per di più con la conservazione delle destinazioni in essere), si verte semplicemente nelle categorie manutentive.

Ricordo che le definizioni degli interventi edilizi di cui all’articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001, non sono esattamente le stesse di quelle stabilite dalla legge regionale n. 12 del 2005, con l’articolo 27, ed in particolare, per quanto riguarda gli interventi di manutenzione straordinaria, non è precluso il mutamento della destinazione d’uso delle singole unità immobiliari. Ciò giustifica, di fatto, quanto disciplinato dal successivo articolo 52, comma 1, secondo il quale “ i mutamenti di destinazione d’uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunale, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento e sono ammessi anche nell’ambito di PA in corso di esecuzione”.
Una breve annotazione merita l’applicazione delle sanzioni che riguardano i mutamenti di destinazione d’uso con o senza opere.
L’articolo 53 della legge regionale n. 12 del 2005 stabilisce le sanzioni amministrative, fermo restando l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 31 del dPR n. 380/2001 per le violazioni essenziali di cui al successivo art. 32, stabilite, appunto, dall’articolo 54 della stessa legge regionale.
Partendo, pertanto, proprio da quest’ultima ipotesi, si ribadisce che le modifiche edilizie che comportano il mutamento delle destinazioni d’uso che determinano carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse generale, costituiscono o determinano “variazioni essenziali” e, come tali, sono perseguibili ai sensi dell’articolo 31 del dPR n. 380/2001 (compreso l’applicazione delle sanzioni penali), fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 51, commi 4 e 5,

A mente dell’articolo 32 del Testo Unico per l’Edilizia si tenga conto che non costituiscono variazioni essenziali quelle che incidono sull’entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interne delle singole unità abitative, mentre il mutamento di destinazione d’uso che implica variazione  degli standard, effettuato su immobili sottoposti a vincoli, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44 del citato decreto.
Diversamente, in base appunto alle sanzioni di cui all’articolo 53 (solo amministrative), è previsto che:

1- per i mutamento della destinazione d’uso, con opere, in difformità alle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applicano le sanzioni amministrative previste dalla legislazione vigente per le opere in assenza o in difformità dal permesso di costruire, ovvero in assenza o in difformità dalla Dia,

2- per i mutamenti delle destinazioni d’uso, senza opere, ancorché comunicati preventivamente al comune, risultino in difformità alle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’aumento del valore venale dell’immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione d’uso, non inferiore a 1000 euro,

3- per i mutamenti di destinazione d’uso, con opere, effettuati in assenza dell’atto unilaterale d’obbligo (previsto o convenzionato), ovvero in difformità ai medesimi, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio degli oneri di urbanizzazione dovuti per l’interveto, non inferiore a 1000 euro.

La questione dell’onerosità degli interventi per il mutamento della destinazione d’uso degli immobili, è del tutto autonoma in quanto prescinde dall’esistenza o meno di una Dia o di un permesso di costruire, per cui l’onerosità è dovuta, limitatamente alla differenza tra la nuova e la vecchia destinazione.
Attualmente l’articolo 52 della legge regionale n. 12 del 2005, disciplina i mutamenti della destinazione d’uso con o senza opere edilizie, e stabilisce che:

– quelli connessi alla realizzazione di opere edilizie, conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, non mutano la qualificazione dell’intervento, e sono ammessi anche in ambito di PA in corso di attuazione,

– per quelli non comportanti la realizzazione di opere edilizie, conformi al PGT e alla normativa igienico sanitaria, basta la comunicazione preventiva al comune, quale che sia la superficie interessata dal mutamento di destinazione d’uso,

– la corresponsione del contributo di costruzione, qualora la destinazione d’uso degli immobili sia modificata nei dieci anni successivi all’ultimazione dei lavori, è dovuta nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell’intervenuta variazione,

– l’obbligo di richiedere il permesso di costruire per quelli che prevedono la creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali.

Prima di riportare i contenuti di alcune sentenze (per altro recenti) sul mutamento della destinazione d’uso, significative ed interessanti, ritengo nuovamente utile tornare sull’aspetto dell’onerosità di quelli non comportanti la realizzazione di opere edilizie.
Come sopra si diceva, per i mutamenti della destinazione d’uso, senza opere, è previsto, dal punto di vista procedurale, il solo obbligo della preventiva comunicazione al comune (senza limite di superficie lorda di pavimento).
Fuori dall’ipotesi del comma 3 dell’articolo 52 ella LR n. 12/2005, è il mutamento di destinazione d’uso, senza opere, ancorché sottratto a qualunque atto di assenso, che è soggetto al pagamento del contributo qualora la nuova destinazione comporti un maggior carico urbanistico.

La circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non soggette a preventivo titolo, non comporta, di diritto, l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Il contributo non è geneticamente collegato al rilascio di un nuovo permesso di costruire, per cui il mutamento di destinazione d’uso, anche se non soggetto a nessun titolo abilitativo (in quanto senza opere), cui consegua un maggior carico urbanistico comporta l’onere del pagamento della differenza tra gli oneri connessi alla destinazione originaria e quelli dovuti per la nuova destinazione impressa.

Il mutamento di destinazione, se riconducibile ad una classe contributiva diversa e più onerosa della precedente, tale che, se il titolo abilitativo fosse stato richiesto fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole contributo urbanistico, impone l’applicazione della norma di cui all’ex articolo 10, della legge n. 10/1977, ora confluito – TAR Lombardia, sezione Brescia, 13 giugno 2002, n. 957
– TAR Lombardia, sezione Brescia, 10 marzo 2005, n. 145
– CdS  , sezione V, 12 giugno 2002, n. 3268
Di seguito si riportano le sintesi di alcune sentenze della Giustizia amministrativa riguardanti appunto il mutamento della destinazione d’uso degli immobili.

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso di una porzione dell’immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia”.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett.
a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo).
Contrariamente a quanto prospettato dal gravame, il mutamento di destinazione d’uso di una porzione dell’immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia”, come si evince, del resto, dall’esplicito riferimento a tale tipologia di intervento presente nell’art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r. n. 380/2001 (in termini, TAR Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n. 1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di cui all’allegato 1 della l. n. 326/2003, che preclude la possibilità di sanatoria per il caso di sussistenza del vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 – link a www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA PRIVATA: Circa il quadro normativo in materia di mutamenti di destinazione d’uso lo si può riassumere come di seguito riportato.
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d’uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l’ulteriore corollario che il mutamento dell’uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell’autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d’uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all’interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d’uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell’autorizzazione, stante l’espressa previsione dell’applicabilità del regime delle opere interne (di cui all’art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che “non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni”;
c) il mutamento di destinazione d’uso senza opere era regolato dall’art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire “criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d’uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione”.
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all’art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall’art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”.
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull’assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ‘’A”, ‘’B” e ‘’C”, produttive ‘’D”, agricole ‘’E”, e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ‘’F”, operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all’interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La conclusione che precede è, del resto, l’unica coerente con il quadro normativo di riferimento in materia di mutamenti di destinazione d’uso, che giova di seguito riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.02.2012, n. 885).
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d’uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l’ulteriore corollario che il mutamento dell’uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell’autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d’uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all’interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d’uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell’autorizzazione, stante l’espressa previsione dell’applicabilità del regime delle opere interne (di cui all’art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che “non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni”;
c) il mutamento di destinazione d’uso senza opere era regolato dall’art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire “criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d’uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione”.
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all’art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall’art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”.
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull’assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ‘’A”, ‘’B” e ‘’C”, produttive ‘’D”, agricole ‘’E”, e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ‘’F”, operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all’interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 – link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537 – link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione ed aggravio del carico urbanistico.
L’aggravio urbanistico va considerato in relazione alla interezza della condotta ed alle finalità perseguite con le realizzazioni abusive. Il mutamento di destinazione dell’area attraverso la realizzazione delle opere contestate comporta evidentemente l’inadeguatezza delle strutture (strade, fognature, elettrificazione, ecc.) che non possono non essere diverse tra un’area “verde” ed una adibita a scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33353 – tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto sviluppo. Cambi d’uso e manutenzione straordinaria senza permessi.
Per gli immobili d’impresa si amplia l’edilizia libera. Le incertezze interpretative frenano però l’applicazione.
I DUBBI/ Le modifiche urbanistiche non possono interessare i fabbricati che non sono ancora adibiti alle attività produttive.
Il legislatore nazionale torna a occuparsi dell’attività edilizia libera, con l’articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto dalla legge di conversione in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le significative modificazioni già apportate alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma amplia ulteriormente il novero degli interventi per la cui esecuzione non è necessario un titolo abilitativo, inserendo al secondo comma dell’articolo 6 del Dpr 380/2001 la lettera e-bis), specificamente rivolta agli immobili utilizzati per lo svolgimento di attività imprenditoriali, nel cui ambito, stante la generalità (o genericità) del termine, possono ragionevolmente ricomprendersi di fatto tutti gli immobili non destinati alla residenza (capannoni e negozi, ad esempio).
Da domani, quindi, sarebbe sufficiente una semplice comunicazione al Comune sia per realizzare «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa», sia per effettuare «le modifiche della destinazione d’uso» di questi locali.
La disposizione solleva varie perplessità, innanzitutto per il ricorso alla locuzione “modifiche interne” senza alcuna ulteriore specificazione tipologica. Appare azzardato ipotizzare che il legislatore abbia inteso consentire cambiamenti anche di tipo strutturale, oppure interventi riconducibili al novero della ristrutturazione o del restauro e risanamento conservativo, poiché in tal caso verrebbe a delinearsi una incongrua disparità di trattamento e il sospetto di incostituzionalità della previsione. Infatti, solo i proprietari di immobili adibiti ad attività imprenditoriali risulterebbero esentati dalla necessità di un titolo abilitativo per queste categorie di interventi.
È quindi preferibile una lettura costituzionalmente orientata, che riconduca le modifiche interne nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria ammessi dal comma 2, lettera a), che già contempla «l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne»; anche in questo caso con ovvia esclusione delle opere di tipo strutturale –per le quali è richiesto in via generale il titolo abilitativo– e senza alcun mutamento di destinazione d’uso, trattandosi di modifiche edilizie relative a fabbricati comunque già adibiti a esercizio di impresa. Ma con questa più prudente chiave interpretativa, la previsione finisce con lo svuotarsi di contenuto sostanziale.
Anche la seconda parte della disposizione desta incertezze, nella misura in cui prevede la possibilità di effettuare «modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa». Trattandosi di misure teoricamente volte a favorire le iniziative produttive, la norma avrebbe forse dovuto adoperare il termine “da adibirsi”, così sancendo la possibilità di utilizzare a esercizio di impresa spazi in precedenza destinati ad altro uso. Inoltre, se i locali sono (già) adibiti ad attività imprenditoriale, la modifica d’uso non potrà che avvenire nell’ambito della stessa tipologia ed essere di tipo funzionale, quindi senza l’esecuzione di opere. Diversamente si ricadrebbe in un’ipotesi interpretativa sperequata e di dubbia costituzionalità, esentando i soli proprietari imprenditori dall’obbligo del previo titolo abilitativo (che nelle zone omogenee “A” è il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 10, primo comma, lettera c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza (si veda ad esempio Consiglio di Stato, Sezione V, 1650/2010, 498/2009; Tar Lazio-Roma, 4622/2011; Cassazione penale, Sezione III, 20350/2010) il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico costruttivi, stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria. Peraltro, in questo caso, la modifica d’uso non dovrebbe comportare il pagamento di un ulteriore contributo di costruzione.
La previsione, dunque, dovrebbe essere letta e interpretata tenendo presente le possibili ripercussioni del mutamento d’uso sui parametri urbanistici e sulle volumetrie massime assentibili in relazione agli indici della zona, così come individuati dai piani regolatori generali, nonché i limiti di carattere generale posti per l’attività edilizia che può essere eseguita in assenza di pianificazione urbanistica, specie per ciò che attiene alle destinazioni produttive (articolo 9, testo unico).
Le conclusioni che si possono trarre dai contenuti della precedenti sentenze, sono sostanzialmente le seguenti:
1) l’attuale assetto dei mutamenti delle destinazioni d’uso degli immobili parte dalla legge n. 662 del 1996, secondo la quale “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”. L’articolo 25 della legge sopra citata, nel delegare alle regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso, sia per quelli di carattere strutturale, quanto quelli di carattere funzionale, ha introdotto la facoltà di sottoporre a “concessione edilizia” i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggior carico urbanistico sul territorio comunale (con riferimento al DM n,. 1444/1968) ed a semplice “autorizzazione edilizia”, quelli attuati all’interno della stessa categoria funzionale,
2) il Testo unico dell’Edilizia, approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 ha ripreso tale impostazione. prevedendo, con l’articolo 10, comma 2, che le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazione fisiche ….. sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
3) la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo,
4) con l’entrata in vigore del D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012, una norma prevede che alcuni interventi non siano subordinati a un titolo abilitativo e, tra questi (vedi l’art. 6, lettera e-bis), del d.P.R. n. 380/2001), siano subordinati ad una semplice comunicazione al comune per realizzare “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa”, oppure, “le modifiche della destinazione d’uso” di questi locali. Anche la seconda parte della disposizione desta incertezze, nella misura in cui prevede la possibilità di effettuare “modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa”. Sebbene la norma non è scritta come avrebbe dovuto esserlo, consente di utilizzare a esercizio di impresa spazi già  produttivi, la cui modifica d’uso non potrà che avvenire nell’ambito della stessa tipologia produttiva, di tipo funzionale.  In questo caso, la modifica non dovrebbe comportare il pagamento di un ulteriore contributo di costruzione.


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