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10.02.2003 - lavoro

INPS – TUTELA DELLA MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ – ULTERIORI PRECISAZIONI DELL’ISTITUTO

INPS – TUTELA DELLA MATERNITA’ E DELLA PATERNITA’ – ULTERIORI PRECISAZIONI DELL‘ISTITUTO INPS – TUTELA DELLA MATERNITA’ E DELLA PATERNITA’ – ULTERIORI PRECISAZIONI DELL‘ISTITUTO 

Con circolare 17 gennaio 2003, n. 8 l’INPS è intervenuto in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, confermando le precedenti istruzioni impartite e precisandone, paraltro, taluni aspetti.

1) Congedo parentale

Genitore solo
In forza dell’art. 32 del Testo Unico, ciascuno dei genitori (indipendentemente dal fatto che l’altro abbia o meno titolo per fruirne) ha diritto ad astenersi dal lavoro, nei primi otto anni di vita del bambino, per un periodo prefissato legislativamente. Tale prerogativa, in particolare, compete:
a) alla madre lavoratrice dipendente, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 6 mesi, nel limite massimo complessivo, per entrambi i genitori, di dieci mesi;
b) al padre lavoratore dipendente, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi (nel limite massimo complessivo, per la coppia, di 10 mesi) o, qualora abbia già fruito di un periodo di astensione, continuativo o frazionato, pari o superiore a 3 mesi, a 7 mesi (nel limite massimo complessivo per entrambi i genitori di 11 mesi);
c) al genitore solo, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 10 mesi.
A quest’ultimo riguardo, l’INPS, con la circolare in commento, ha precisato che la condizione di “genitore solo” si può realizzare, oltre che nelle ipotesi già contemplate nella precedente circolare n. 109/2000 (morte dell’altro genitore, abbandono del figlio da parte dell’altro genitore, affidamento esclusivo del figlio ad un solo genitore, risultante in modo esplicito dalla sentenza di separazione), anche in caso di non riconoscimento del figlio da parte di un genitore.
E’ da porre in evidenza che il padre (o la madre) non ha automaticamente diritto al congedo parentale nei più ampi termini indicati nella precedente lett. c) per il solo fatto di essere single. A tali fini, infatti, è necessario che l’altro genitore non riconosca (o non abbia riconosciuto) il figlio, e che il richiedente produca apposita dichiarazione di responsabilità (a prescindere dal fatto che il bambino porti il suo cognome).
Alla cessazione della condizione di “genitore solo”, derivante dal’avvenuto riconoscimento del figlio (debitamente posto a conoscenza del datore di lavoro e dell’INPS):
– la fruizione del maggior periodo concesso al genitore (4 o 3 mesi) è interrotta;
– il maggior periodo già fruito è posto in detrazione a quello spettante al genitore che da ultimo ha effettuato il riconoscimento.

Parto gemellare o plurigemellare
La circolare conferma, sul punto, le precedenti indicazioni, stabilendo che, in caso di parto plurimo (gemellare o plurigemel-lare), il congedo parentale spetta a ciascun genitore per ogni bambino nato (per ciascun figlio, fino a 6 mesi per la madre, o fino a 7 mesi per il padre, nel limite complessivo di 10 o 11 mesi fra entrambi i genitori).
Pertanto, il beneficio viene moltiplicato in ragione del numero di figli nati dallo stesso parto.
L’Istituto, inoltre, ha precisato che tale regola trova applicazione anche nel caso di adozione ed affidamento di minori, non necessariamente legati tra loro da vincoli di sangue, entrati in famiglia lo stesso giorno.

Trattamento indennitario
Ai sensi dell’art. 34 del Testo Unico, per i periodi di congedo parentale è dovuta ai lavoratori ed alle lavoratrici astenutisi dal lavoro un’indennità pari al 30% della retribuzione, calcolata secondo quanto previsto dall’art. 23 (ad esclusione del comma 2 dello stesso).
Nella circolare in commento, sono contenute utili indicazioni relativamente alla retribuzione da prendere a riferimento per il calcolo dell’indennità per congedo parentale.
A riguardo, l’Istituto ha precisato che tale importo è pari:
– alla retribuzione media globale giornaliera percepita dalla lavoratrice, a seconda che la paga sia o meno settimanale, nel periodo di paga quadrisettimanale ovvero mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio l’astensione,
– alla retribuzione del periodo mensile o quadrisettimanale scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità (senza conteggiare i ratei delle mensilità aggiuntive), qualora la lavoratrice fruisca del congedo parentale immediatamente dopo il congedo di maternità (senza ripresa alcuna dell’attività lavorativa),
– alla retribuzione del periodo di ripresa dell’attività lavorativa, qualora la lavoratrice ritorni in servizio (anche per un solo giorno), al termine del congedo i maternità,
– alla retribuzione del mese precedente, qualora il congedo parentale sia fruito in maniera frazionata.
Secondo le regole note, la retribuzione lorda così individuata deve essere divisa per il numero dei giorni lavorati o retribuiti, ed in particolare per:
– 30, per gli impiegati che hanno lavorato l’intero mese o, se il mese non è interamente compiuto, per il minore numero dei giorni lavorati o retribuiti (comprese le festività);
– il numero dei giorni retribuiti, comprensivi, oltre che di quelli lavorati, anche di quelli per i quali è stata corrisposta la retribuzione, quali, festività, ferie, permessi retribuiti, nonché la sesta giornata nel caso in cui sia in vigore la “settimana corta”, per gli operai.
L’indennità in parola spetta sia ai genitori naturali che a quelli adottivi ed affidatari.
A quest’ultimo riguardo, è da rammentare che l’art. 36, commi 2 e 3, del Testo Unico, sotto la rubrica “Adozioni e affidamenti”, prevede che “il limite di età, di cui all’art. 34, comma 1 – rilevante ai fini dell’erogazione dell’indennità per congedo parentale indipendentemente dalle condizioni di reddito, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi, e fissato, per i genitori naturali, a 3 anni -, è elevato a sei anni. In ogni caso, il congedo parentale può essere fruito nei primi tre anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.
Qualora, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia un’età compresa fra i sei e i dodici anni, il congedo parentale è fruito nei primi tre anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare”.
L’INPS, con la circolare in parola, ha chiarito la portata nella norma anzidetta, precisando che l’indennità giornaliera per congedo parentale spetta ai genitori adottivi o affidatari di:
– bambini di età inferiore a 6 anni:
indipendentemente dal reddito, per un periodo massimo complessivo, tra i genitori, di 6 mesi, a condizione che il congedo parentale sia richiesto entro 3 anni dall’ingresso del bambino in famiglia;
– bambini di età compresa tra i 6 e gli 8 anni:
a condizione che il reddito individuale dell’avente diritto dell’anno in cui si usufruisce dell’astensione sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’INPS, per i periodi di congedo ulteriori rispetto a quelli fruiti fino al 6° anno di età del minore;
– bambini che, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, hanno un’età compresa tra i 6 ed i 12 anni:
solo se il congedo ed il relativo trattamento indennitario siano richiesti entro 3 anni dall’ingresso del minore in famiglia.
L’INPS ha altresì sottolineato la necessità di distinguere tra “affidamento” ed “inserimento” dei minori in comunità di tipo familiare, sia per le spettanze dovute ai genitori di disabili gravi, sia per le prestazioni di maternità/paternità.
L’Istituto, infine, ha precisato che il “genitore solo” ha diritto al trattamento indennitario spettante per il congedo parentale relativamente ai periodi goduti ulteriori rispetto a quelli massimi individuali previsti dall’art. 32 (6 o 7 mesi) sempre in relazione alle condizioni del proprio reddito (ai fini della fruizione dell’indennità, quindi, il reddito individuale dell’anno in cui usufruisce dell’astensione deve essere inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’INPS anche qualora gli ulteriori mesi riconosciutigli siano fruiti entro tre anni di età del figlio).

2) Congedo di maternità/paternità

Congedo di paternità
Ai sensi dell’art. 28 del Testo Unico, il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla “lavoratrice”, in caso di morte, di grave infermità o di abbandono della madre, nonché di affidamento esclusivo del bambino al padre.
Con la circolare in commento, l’INPS ha precisato che la norma citata, sebbene si riferisca testualmente alla condizione della madre “lavoratrice” (e sembrerebbe, quindi, escludere la fruibilità del congedo di paternità nel caso in cui quest’ultima non sia occupata), deve ritenersi attributiva al padre di un autonomo diritto all’astensione dal lavoro; conseguentemente, il congedo di paternità è fruibile anche qualora la madre non sia una lavoratrice dipendente (e non abbia diritto al periodo di astensione obbligatoria).
La condizione di lavoratrice dipendente, e l’eventuale fruizione del congedo di maternità, quindi, influiscono unicamente sulla durata (e non sulla spettanza) del congedo di paternità.
Tali indicazioni costituiscono una logica conseguenza di quanto affermato in talune pronunce della Corte Costituzionale, che ha individuato nella garanzia di un’assistenza materiale ed effettiva, da parte di uno qualsiasi dei genitori, del neonato la ratio della disposizione citata.

Flessibilità del congedo di maternità
Ai sensi dell’art. 20 del Testo unico, ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità, la lavoratrice ha facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato, ed il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non rechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro (cosiddetta “flessibilità del congedo di maternità”).
A riguardo, si rammenta l’esistenza di un’incertezza interpretativa circa la portata della disposizione citata: mentre a detta dell’INPS la certificazione rilasciata dal medico competente ai sensi del decreto legislativo n. 626/1994 sarebbe necessaria in tutte le ipotesi in cui lo stesso sia stato nominato dal datore di lavoro, a prescindere dalla mansione svolta dalla lavoratrice, a giudizio del Ministero del Lavoro tale attestazione dovrebbe essere prodotta unicamente nel caso in cui la donna sia adibita a lavorazioni oggetto di sorveglianza sanitaria.
La lavoratrice che intenda avvalersi della “flessibilità” del congedo di maternità è tenuta a presentare al datore di lavoro ed all’INPS apposita domanda, corredata dai certificati medici predetti dai quali risulti l’insussistenza delle condizioni ostative all’esercizio dell’opzione indicate dal Ministero del Lavoro con circolare 7 luglio 2000, n. 43.
Con la circolare in esame, l’INPS ha chiarito che la domanda di flessibilità può essere accolta anche se presentata oltre il 7° mese di gravidanza (purché nel termine di prescrizione di un anno decorrente dal giorno successivo al periodo di congedo dopo il parto):
– sempreché le certificazioni mediche predette siano state acquisite nel corso del 7° mese di gravidanza (e la lavoratrice abbia continuato a lavorare), ovvero
– nel caso in cui le certificazioni mediche siano state acquisite dopo il 7° mese di gravidanza, limitatamente all’eventuale residuo di giorni decorrenti dal rilascio delle attestazioni stesse.
Qualora la dipendente continui a lavorare nel periodo “protetto” pur non essendo in possesso delle idonee certificazioni mediche, inoltre:
– l’erogazione dell’indennità di maternità è preclusa (e la lavoratrice ha diritto alla normale retribuzione erogata dal datore di lavoro);
– le giornate lavorate senza “autorizzazione” sono conteggiate ai fini della durata complessiva del congedo, ma non possono essere recuperate dopo il parto come giorni di congedo di maternità.
L’Istituto, infine, ha chiarito che la lavoratrice autorizzata a lavorare durante l’ottavo mese di gravidanza ha diritto alla fruizione, in questo stesso periodo di tempo, del congedo parentale per un altro figlio.
Documentazione
Al fine del riconoscimento del diritto all’astensione obbligatoria (e del relativo trattamento economico), la madre lavoratrice (o il padre lavoratore che ne abbia titolo) è tenuta a presentare (al solo INPS o all’INPS ed al datore di lavoro, a seconda che le prestazioni siano a pagamento diretto o “a conguaglio”) domanda in tal senso, tramite il Mod. MAT., alla quale deve essere allegata apposita certificazione medica.
Ai sensi dell’art. 21, comma 2, del Testo Unico, in particolare, la lavoratrice è tenuta a produrre, entro 30 giorni dall’evento, il certificato di nascita del figlio, ovvero apposita dichiarazione sostitutiva dalla quale risulti la data del parto, resa ai sensi e per gli effetti del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Con la circolare da ultimo pervenuta, l’INPS ha ribadito che il predetto termine di 30 giorni:
– è operativo per qualsiasi parto (ivi compreso quello prematuro);
– ha carattere ordinatorio (conseguentemente, una sua eventuale inosservanza non è sanzionabile, e non influisce sul diritto alla prestazione indennitaria).
3) Malattia

L’INPS ha riepilogato i criteri applicabili nel caso in cui la lavoratrice/il lavoratore dipendente contragga una malattia durante o successivamente il congedo parentale o di maternità. In base alle istruzioni diramate, in particolare, nel caso di malattia contratta:
– durante il periodo di congedo parentale: nel presupposto che il genitore intenda sospendere il godimento del congedo parentale, l’erogazione dell’indennità per congedo parentale viene sospesa ed è corrisposta, ove spettante, per conto dell’INPS e per la durata della patologia, l’indennità di malattia;
– successivamente al termine del periodo di congedo parentale, seguito da una mancata ripresa dell’attività lavorativa: l’indennità di malattia compete dal giorno successivo alla fine del congedo parentale;
– durante il congedo di maternità/paternità: l’indennità di maternità/paternità assorbe e sostituisce l’indennità giornaliera per malattia (comune e per tubercolosi).

4) Riposi giornalieri (cosiddetti “per allattamento”)

Ai sensi dell’art. 39 del Testo Unico, la madre lavoratrice ha diritto, durante il primo anno di vita del bambino, a due periodi di riposo (o ad un riposo, qualora l’orario di lavoro sia inferiore alle 6 ore giornaliere), di mezz’ora o di un’ora ciascuno a seconda che la donna usufruisca o meno dell’asilo nido o di altra struttura idonea istituiti nell’unità produttiva o nelle sue immediate vicinanze.
Tali periodi di riposo possono essere fruiti anche dal padre purché:
a) i figli siano affidati unicamente a lui;
b) la madre lavoratrice dipendente non se ne avvalga e non fruisca del congedo di maternità o parentale nello stesso periodo (come ribadito nella circolare in esame, infatti, mentre la madre può fruire dei riposi giornalieri durante il periodo di congedo parentale del padre, non è ammesso il contrario);
c) la madre sia morta od in stato di grave infermità;
d) la madre non sia una lavoratrice dipendente.
In base a quanto precisato dall’INPS, in particolare, qualora la madre:
– sia una lavoratrice autonoma: il padre può fruire dei riposi in parola dal giorno successivo a quello finale del periodo di trattamento economico spettante alla madre dopo il parto ed a condizione che quest’ultima non abbia chiesto di godere ininterrottamente del congedo parentale, successivamente a detto periodo;
– non sia una lavoratrice: il padre non ha diritto ad alcun riposo per allattamento (diversamente dal congedo parentale e dalle ipotesi indicate alle precedenti lettere a), b) e c), infatti, in questo caso il diritto del lavoratore non è autonomo, ma strettamente correlato alla posizione della madre).
L’Istituto, infine, ha ribadito che il padre non può godere dei riposi in parola:
– durante il congedo di maternità e/o parentale della madre (questa regola, tuttavia, subisce una deroga nel caso in cui vi sia stato un parto plurimo. In tale ipotesi, infatti, i permessi sono raddoppiati, ed il lavoratore può usufruire delle ore aggiuntive rispetto a quelle ordinariamente spettanti anche durante l’astensione obbligatoria e facoltativa della madre);
– durante le assenze della madre che determinano una sospensione del rapporto di lavoro (nel corso della quale la stessa non si può avvalere dei riposi).

5) Risoluzione del rapporto di lavoro

La risoluzione del rapporto di lavoro dei genitori lavoratori è assistita da una serie di limitazioni e garanzie formali volte ad evitare che la condizione di madre/padre possa innestare ingiustificate discriminazioni.
L’efficacia delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza od il primo anno di vita del bambino (o dal lavoratore che ha fruito del congedo di paternità durante il primo anno di vita del bambino), in particolare, è subordinata alla convalida dell’atto di recesso da parte del Servizio ispezione della Direzione .Provinciale del Lavoro.
Nella circolare in esame, l’INPS, a conferma delle precedenti indicazioni fornite sul punto, ha ribadito che la convalida delle dimissioni presentate nel periodo “protetto” è finalizzata unicamente ad evitare che l’evento maternità/paternità possa dar luogo a comportamenti discriminatori da parte del datore; conseguentemente, un eventuale inadempimento a tale onere non influisce minimamente sul diritto alla percezione delle indennità di maternità/paternità e di disoccupazione.

Relativamente al rapporto tra le indennità di maternità e di disoccupazione, inoltre, l’Istituto ha precisato che nei casi in cui:
– il congedo di maternità abbia inizio oltre 60 giorni dalla risoluzione del rapporto: la lavoratrice ha diritto all’indennità di maternità (e non a quella di disoccupazione) qualora, all’inizio del congedo, fruisca (o, per lo meno, abbia diritto) dell’indennità di disoccupazione;
– il congedo di maternità abbia inizio entro 60 giorni dalla risoluzione del rapporto: la lavoratrice ha diritto all’indennità di maternità indipendentemente dalla titolarità del diritto all’indennità di disoccupazione.
L’INPS, infine, ha rammentato che, in base a quanto disposto dalla Corte Costituzionale con sentenza 14 dicembre 2001, n. 405 l’indennità di maternità compete anche in caso di licenziamento per giusta causa. Tale disposizione si applica anche alle fattispecie pregresse, per le quali non sia intervenuta prescrizione, decadenza o sentenza passata in giudicato.


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